L’università italiana, negli ultimi anni, sta facendo parlare molto di sé, e non per un buon motivo: il fenomeno del suicidio in ambito accademico ha raggiunto numeri allarmanti.
Qualsiasi tipo di approccio ad una situazione così tragica può sembrare riduttivo, qualsiasi tentativo di spiegazione può risultare non abbastanza soddisfacente, dati i molteplici fattori che, caso per caso, entrano in gioco.
Ma questo articolo si ripropone di evitare di liquidare l’argomento con un “si tratta dell’ennesimo caso di depressione”, e non perché fattori psichici endogeni non abbiano rilievo, tutt’altro: la crescita esponenziale dei suicidi tra gli studenti universitari italiani, così come il fenomeno della pandemia, ci stanno permettendo di riscoprire l’importanza della salute mentale.
Tuttavia, quando si parla di un fenomeno sociale di una data portata, è importante soffermarci anche sulle radici sociali che potrebbero celarsi dietro i vissuti negativi che albergano negli studenti di questi tempi.
LE NARRAZIONI TOSSICHE QUANTO PESANO LE ASPETTATIVE?
La nostra società non perde occasione di ricordarci quanto potremmo essere meglio, se solo lo volessimo davvero. Questo è il volontarismo magico: l’idea che se lo vuoi davvero, cioè se sei davvero disposto a sacrificare te, la tua vita, tutto il tuo tempo e le tue risorse, allora riuscirai sicuramente.
Le continue notizie sull’ultimo laureato prodigio del caso, che si è fatto strada col sudore della fronte (e altre mirabolanti narrazioni simili) rischiano di scavare, in modo lento e subdolo, la coscienza collettiva convincendoci che essere i migliori è l’unico traguardo possibile, che l’università è una gara a tempo, che dobbiamo essere produttivi e che l’ozio è un lusso spregevole e da combattere con tutte le nostre forze.
Meritocrazia? I criteri di merito sembrano pensati, piuttosto, per far sparire ogni disuguaglianza nelle condizioni di partenza, e ammantare tutto di un’aura di giustizia sociale (come se non sapessimo che, in Italia, l’ascensore sociale ha qualche problema di funzionamento!).
Capiamo bene che, con questi presupposti, il giudizio sociale, e quindi le aspettative che pesano sulle spalle degli studenti, diventano sempre più pesanti, così come gli obiettivi da porsi sempre più difficili da raggiungere, e allo stesso tempo imprescindibili, se non si vuole essere considerati falliti.
LO SPETTRO DEL FALLIMENTO
Ma che cos’è il fallimento?
È forse la parola che ogni studente avrà formulato almeno una volta nella mente pensando al proprio rendimento al di sotto del 30 e lode.
Il fallimento di cui si parla in questi casi si basa proprio sui modelli sbagliati proposti da una società ossessionata dal mito della produttività, una produttività tossica e pericolosa.
Se il nostro valore risiede, in un’ottica preoccupantemente capitalistica, in quanto produciamo e in quanto velocemente produciamo, e se il modello con cui ci dobbiamo confrontare è il plurilaureato a tempo record con media stellare (che viene spacciato come normalità), il minimo che possiamo aspettarci saranno quei vissuti di ansia, angoscia, tristezza e senso di fallimento, nonché il terrore di deludere le aspettative.
Sarebbe giusto, pertanto, smetterla di etichettare le persone in questione come “giovani viziati che non sanno più tollerare i piccoli fallimenti della vita”, né come “pazzi con mille altri problemi collaterali” come si usa dire quando ci si vuole autoassolvere per aver assecondato quella mentalità, liquidando anche l’ennesimo suicidio come un caso isolato.
In una società che non tollera il fallimento, infatti, non si può pensare che un bambino, che poi diventa un ragazzo e poi un giovane adulto immerso in un mondo in cui il valore di una persona è calcolabile in base a voti, produttività e fatturato, impari a tollerarlo.
Come invertire la rotta?
Fare retromarcia, per quanto complicato vista la deriva sociale appena presentata, è ancora possibile. Soprattutto in questo periodo in cui la tematica della salute mentale sembra essere finalmente d’interesse della massa, un dato, questo, che rappresenta un ottimo punto di partenza ma che, come abbiamo visto, non può bastare.
Sembrerebbe fondamentale, invece, sensibilizzare sull’imprescindibile interconnessione tra salute mentale e società, prendendoci tutti qualche responsabilità.
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